Valentina Tanni: Memestetica. Il settembre eterno dell’arte

Domenico Quaranta
12 min readDec 25, 2020

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Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte, NERO, Roma 2020

Non possiamo continuare a navigare sulla superficie e rigettare tutto il resto, perché il settembre eterno è la nostra nuova realtà.” (p. 242) Il settembre eterno di cui parla Valentina Tanni nell’ultima frase di Memestetica (NERO, Roma 2020) è la condizione senza ritorno generata dall’accesso globale e orizzontale ai mezzi di produzione creativa e di distribuzione, reso possibile dall’avvento dell’informatica di consumo e della rete: una condizione in cui “l’impulso creativo sta diventando un comportamento diffuso” (p. 13), in cui il modello del professionalismo viene messo in discussione dall’avvento del Pro-Am — l’“amatore con standard da professionista” (p. 9) — e in cui l’arte (del presente e del passato) si trova ad essere ridotta allo status di materiale disponibile (p. 7).

Il saggio esordisce, non a caso, con una riflessione sul fotografico, essendo la fotografia il linguaggio che ha forse più subito l’impatto di questa transizione: da pratica professionale a “arte media” a linguaggio universale, praticato da tutti, in continuazione. La disseminazione inarrestabile della fotografia la rende un mezzo instabile, svincolato da specifici gesti e dispositivi e persino dall’occhio e da una agentività umana, continuamente contaminato con altri media, libero da ogni funzione indicale e da ogni legame con la verità. Tanni passa quindi alle gif animate, ai fenomeni di internet e ai meme, espressioni di quella “digitally enabled folk culture” (Charles Leadbeater) che è il cuore di questo libro.

I memi vengono discussi nella loro natura contagiosa e “spreadable” (Henry Jenkins), nella loro fluidità anarchica, nella loro capacità di strappare all’arte strategie come l’appropriazione, il remix, il détournement, la parodia, l’ironia, il gusto dell’assurdo e del surreale. Attraverso l’internet folk culture, lo straordinario diventa la nuova normalità (Kevin Kelly). Ma se l’arte fornisce spesso l’ispirazione a questa produzione culturale, o lo sfondo (concettuale o fisico, come nel caso dei selfie) in cui si manifesta; se possiamo considerare legittimamente queste pratiche l’espansione globalizzata del concettualismo (Boris Groys) o dell’art amusement preannunciato da George Maciunas (p. 136), guai a chiamarle arte: “tutti la facciamo anche se non lo sappiamo; se mentre la facciamo la pensiamo, oppure la nominiamo, la stiamo riportando allo status precedente. E tornare indietro di livello, in ogni gioco, significa perdere.” (p. 137)

Gli ultimi capitoli del libro sono, a mio parere, i più densi e illuminanti. Tanni analizza la fenomenologia di questo “concettualismo selvaggio” (Darren Wershler), dissezionando questa gelatina dell’immaginario nelle sue mutevoli manifestazioni e rintracciando, per ognuna, le sue analogie con fenomeni, tendenze e linguaggi artistici: dai supercut (Marclay, etc.) ai 10 hours videos (Warhol); dalle internet challenge a performance virali come il planking (analizzati ovviamente alla luce della storia della performance); dalla santificazione del fallimento e dell’errore (glitch, Panorama fail, Photoshop fail), che l’arte ha coltivato per tutto il ventesimo secolo, alla celebrazione del brutto (dall’internet ugly ai fried meme), che raccoglie il rifiuto del bello e della perfezione delle avanguardie adattandoli a un contesto in cui la perfezione è sinonimo di mainstream, la noncuranza è sinonimo di sincerità e verità.

E ancora: il personal storytelling che si manifesta in rete (dai primi video blog al selfie a Tik Tok) trova riscontri in artisti come Roman Opalka o Bas Jan Ader; i contenuti relatable e i video girati nel proprio spazio domestico in Sadie Benning e in molta performance da studio; le pratiche di nonsense (dai tutorial disfunzionali al World Record Egg alle varie manifestazione del weird nei gruppi Facebook e nei sub-reddit, nelle cursed images e nel CGI) nel surrealismo e nel dadaismo.

La sensazione di incertezza che emerge ogni volta che tentiamo di descrivere le nuove traiettorie della cultura visiva rappresenta un indizio importante per iniziare a comprenderla. Abituati a cercare ostinatamente un senso stabile e un assetto valoriale certo, proviamo, come individui e come società, un forte disagio nell’abitare un ambiente che ridefinisce continuamente i propri contorni.” (p. 95) Il grande merito di Memestetica è che si tuffa con coraggio in questo disagio, ne esplora i confini e gli anfratti più oscuri. L’intero libro tradisce, quasi suo malgrado, un grande amore per l’arte e la storia dell’arte; ma quando dell’arte parla direttamente, Valentina Tanni lo fa senza concessioni e false rassicurazioni. L’internet folk culture usa la storia dell’arte come repertorio di linguaggi e di forme, come dispositivo relazionale (p. 209), come immaginario senz’aura. L’arte contemporanea, nei casi migliori, può investigare e analizzare l’internet folk culture, mutuare da essa immaginari ed estetiche (post internet), infiltrare le sue dinamiche (il David Horvitz di head-in-a-fridge, The Jogging); ma quando cerca di confrontarsi con quel mondo subisce le conseguenze della “perdita del contesto”, dell’uscita da quella torre d’avorio che la isola e permette all’aura di manifestarsi: “Dal momento in cui una performance può essere vista su Youtube, finire in un blog in mezzo a foto personali, meme e tutorial… la sua capacità di resistere al confronto con il mondo, mantenendo la sua aura di artisticità, si fa debole e ambigua.” (p. 149). Nei casi peggiori, l’arte si chiude su se stessa e diventa una pratica insignificante e ininfluente in un mare di significati e di influenza.

Ma in generale, “la capacità dell’arte di incidere sull’immaginario collettivo si sta lentamente azzerando.” (p. 98) La centralità dell’artista come “produttore primario di immagini… si sta oggi sgretolando, lasciando il posto a una dinamica di creazione e gestione delle immagini di stampo collettivo.” (p. 241) Secondo Tanni, la soluzione a questa perdita di centralità sembra consistere nell’abbattere definitivamente questa barriera inutile e fatiscente tra arte e pratiche collettive, tra alto e basso, tra creazione artistica e creatività anonima: “è dunque necessario espandere una volta per tutte la nostra idea di arte, accettando la possibilità che si tratti di una modalità di espressione e di soggettivazione diffusa, capace di infiltrarsi nel quotidiano e confondersi con le semplici azioni della vita, abitando luoghi non istituzionali e adottando modalità impreviste, scomposte e inopportune.” (p. 242)

È a questo punto che la mia adesione, istintiva e radicata nell’amicizia e in una grande comunanza di interessi, passioni e letture, al lascito di questo libro comincia a scricchiolare (meglio, è tutto ciò che sono che scricchiola; tutto ciò che, nelle righe che seguono, appare come una critica è in primo luogo un’autocritica). Ogni volta che Tanni, nel corso del libro, si spinge a indagare lo spettro emotivo e le motivazioni dell’internet folk culture, le parole chiave — seppur trattate con condiscendenza e adesione — sono di segno negativo: apatia, noia, nichilismo. “Oggi i meme e lo shitposting sono la risposta spontanea a un mondo giunti alle soglie dell’apocalisse, in senso politico, culturale ed ecologico.” (p. 82) “In un’epoca caratterizzata da un quadro sociopolitico fosco e deprimente, che non offre certezze e scoraggia l’azione collettiva, la risposta — soprattutto giovanile e occidentale — consiste in un atteggiamento dadaista che si manifesta come un riflesso condizionato.” (p. 219). E, citando l’artista Joshua Citarella: “Perlopiù le loro azioni memetiche sono senza senso, rispecchiando così l’insensatezza della maggior parte dei gesti che compongono la società di oggi. L’azione politica ha fallito. Le proteste di massa hanno fallito. Persino il capitalismo ha fallito […] La generazione Z tiktokka con gioioso nichilismo, prendendosi gioco di una società in cui l’autodeterminazione e l’ascesa sociale sono da tempo collassate.” (p. 201)

Davvero, mi chiedo, di fronte all’avanzare del nulla l’unico destino che rimane all’arte è amalgamarsi con questa manifestazione spontanea, emotiva, cinica, rinunciataria e in ultima analisi conservatrice di disagio e rassegnazione? Se veramente il lascito delle avanguardie e delle neoavanguardie ha generato, da un lato, una mistificazione ininfluente che resiste solo perché protetta dalle algide pareti del white cube e, dall’altro, una cultura popolare delle immagini tanto vitale quanto rassegnata al suicidio, non è forse giunto il momento di lasciarsi veramente alle spalle quel lascito, e guardare oltre? Addio, Duchamp. Addio, Maciunas. Addio, Baldessari. Vi abbiamo amato tanto. Ma se potete ancora insegnarci qualcosa, non è quello che ormai hanno imparato tutti. Ci avete offerto tanti strumenti per abitare e capire il presente, ma noi ora dobbiamo concentrarci e progettare il futuro. Lasciamo i vostri giochini concettuali, la vostra ironia e le vostre performance diventate spettacolo a youtuber e tiktoker, e andiamo a cercarci altri maestri, e altre missioni. Non è questo che hanno cercato di insegnarci Vito Acconci e Chris Burden, con il loro abbandono prematuro della performance?

Anche la presunta barriera tra artisti e internet folks mi sembra più porosa e permeabile di quanto siamo disposti a credere. Se c’è una differenza, non può reggersi solo su una scelta di contesto, e su dicotomie che non hanno più senso come artista e amatore, alto e basso, autoriale e anonimo. Tutti questi creatori e manipolatori di immagini, che decidano di identificarsi come artisti o no, condividono lo stesso retroterra culturale, gli stessi percorsi formativi, gli stessi strumenti, la stessa alfabetizzazione all’immagine. Anche se non tutti gli autori di memi e di gif animate che popolano l’internet hanno alle spalle una formazione artistica, molti appartengono a quella folta schiera di persone formate dalle università, dalle accademie e dalle scuole di design che non hanno trovato la propria strada nel mondo dell’arte; e quelli che non ne fanno parte hanno raggiunto in autonomia lo stesso livello di alfabetizzazione visiva. Non sono dei rozzi dilettanti, né degli ingenui amatori.

Che cosa vuol dire, allora, diventare artista? Forse per alcuni è abbracciare opportunisticamente un mondo luccicante e pretenzioso, pieno di soldi, in cui costruirsi una carriera e una reputazione — una scelta di contesto. Ma credo che per i più sia la scelta, ascetica e monacale, di dedicare la propria vita all’immagine, invece di considerarla un gioco estemporaneo, occasionale e nichilista.

E credo che sia su questa motivazione che si debba costruire l’arte del presente, ossia del futuro. In diverse occasioni (questa è una), l’artista Trevor Paglen ci ha ricordato che la stragrande maggioranza delle immagini è oggi creata dalle macchine per le macchine, e che lo sguardo umano è diventato una presenza di minoranza nell’orizzonte del visivo. Memestetica ci insegna che un’altra porzione consistente di immagini è prodotta oggi da una massa anonima, demotivata e nichilista, senza alcuna capacità né volontà di controllare e costruire il futuro. La diagnosi di Valentina Tanni, che il settembre eterno sia la nostra realtà, è fondamentalmente giusta. Questa è la realtà della cultura visuale all’inizio del XXI secolo: una realtà angosciante e apocalittica, di cui Memestetica ha il grande merito di aver contribuito a delineare i contorni.

Ma diversamente da Valentina Tanni, io non penso che la nostra idea dell’arte debba estendersi ed abbracciare questa nuova realtà; che l’arte debba amalgamarsi ad essa. Credo invece che debba usarla come nuove fondamenta da cui ergersi, su cui costruire. È su questa base, e a partire da una conoscenza profonda e aggiornata di questa realtà, che l’arte deve mettere a punto — che sta mettendo a punto, anche per opera di alcuni artisti menzionati nel libro — un nuovo professionalismo. Fondato non sulla tecnica, ma sul culto, quotidiano e devoto, di ciò che è umano nell’orizzonte del visivo. Sullo sviluppo di una consapevolezza dell’immagine che solo una vita di dedizione e di ricerche può dare. Sull’esercizio delle sue potenzialità progettuali, sull’implementazione delle sue capacità di dare forma a ciò che sta dietro la soglia dell’apocalisse, di rendere visibile quello che ancora non riusciamo a vedere. Di costruire progetto, alternativa, speranza, futuro, quell’insieme di cose che una volta chiamavamo semplicemente “bellezza”.

Postilla. Sul nuovo professionalismo

Ivan Dal Cin: quella che tu indichi (il design come luogo della “cultura di progetto”) può essere una strada, ma non LA strada. In primo luogo perché il settembre eterno non riguarda solo le arti visive, ma tutte le arti, compreso il design. Lì come in letteratura, musica, cinema, ecc., l’accesso universale ai mezzi di produzione e distribuzione ha messo in discussione il professionalismo, e incrinato i confini di una pratica che, ancora una volta, sembra spesso determinata semplicemente da una scelta di contesto. In secondo luogo, perché il nuovo professionalismo di cui parlo io non implica necessariamente l’invenzione di nuove prassi e metodologie, ma il riconoscimento, la localizzazione e la “riabilitazione” di un professionalismo che già esiste. Provo a spiegarmi meglio.

I grandi “profeti” dell’abbattimento della distinzione tra arte e pratiche diffuse, da Gene Youngblood a Alvin Toeffler, da George Maciunas a Umberto Eco, e i numerosi artisti che si sono fatti interpreti di queste visioni, appartengono culturalmente agli anni Sessanta; raccolgono il lascito di Whole Earth Catalogue, che voleva offrire a tutti “accesso agli strumenti”, esattamente come i filosofi della cibernetica e gli ingegneri e gli hacker che hanno dato vita al computer e a internet; più che profeti di qualcosa che è giunto a compimento all’alba del nuovo millennio, sono attivisti della visione che ha contribuito a plasmare la nuova realtà. Anche la teoria istituzionale e contestuale dell’arte (l’art world come descritto da Arthur Danto e da Howard S. Becker) è, in un certo qual modo, una profezia autoavverante, figlia degenere di questo progressivo, inarrestabile abbattimento delle barriere tra arte e realtà: se l’arte la possono fare tutti, l’Arte deve segnare il territorio, circoscrivere il proprio raggio d’azione.

Queste visioni hanno determinato una svalutazione del professionalismo nello stesso momento in cui il professionalismo, separandosi dalla mera maestria tecnica, andava ricostituendosi su altre basi. A mio parere, tutti i veri, grandi artisti del Novecento sono campioni di “mestiere”: ma il loro mestiere non è facilmente identificabile, sia perché è diverso da ciò che siamo abituati a intendere con questa parola, sia perché loro per primi si sono barricati dietro un’ideologia che voleva che l’arte fosse una cosa facile, accessibile a chiunque. Il più “mestierato” di tutti è probabilmente il solito Marcel Duchamp, vero campione della reinvenzione del mestiere dell’arte. Quando invito a lasciarselo alle spalle, il vero nucleo di verità sta nella postilla che segue: “se potete ancora insegnarci qualcosa, non è quello che ormai hanno imparato tutti.” Un tutti che include artisti e non artisti, perché l’idea che l’arte sia una banalità mistificata (la “buona idea” valorizzata dal “posto giusto”) ha conquistato non solo quelli del “lo sapevo fare anch’io” o dell’“interessante, purché non lo chiamiamo arte”, ma anche gran parte del mondo dell’arte, istituzionalizzandosi e diventando una sorta di nuova accademia; mentre pochi, pochissimi, hanno appreso il mestiere di Duchamp.

Maurizio Cattelan, Comedian, 2019

Prendiamo Comedian, uno dei lavori recenti che più sembra comprovare le tesi di Memestetica: un lavoro che è facile interpretare come una boutade superficiale e istantanea, e che dialoga volutamente con lo scenario dell’immagine sociale. Un lavoro che è stato descritto da alcuni come l’espressione estenuata di un artista “bollito”, applicando alla parabola di Maurizio Cattelan un altro stereotipo della contemporaneità: la ricerca del nuovo, l’esaltazione della gioventù e dei suoi corollari (genialità, rischio, ansia sperimentale) e la denigrazione della maturità che va di pari passo con quella del mestiere. Per me, dietro la semplicità del gesto ci sono anni di frequentazione vorace dell’immagine di consumo (Permanent Food), di partecipazione ai massimi livelli al gioco dell’arte “da galleria”, di studio dell’immaginario popolare di internet e di ciò che rende un’immagine “spreadable” (Toilet Paper). È questo il mestiere di Cattelan, e ciò che fa di Comedian un’opera d’arte prima che un meme, qualcosa che resisterà al tempo e non si salverà soltanto grazie a una sottopagina sbiadita di Knowyourmeme recuperata scavando nell’Internet Archive. È la densità che acquista grazie a questo processo, alla frequentazione assidua, consapevole e duratura delle immagini, non una scelta di contesto, a distinguerla da una qualsiasi trovata. Come nella leggenda dell’artista cinese raccontata da Italo Calvino nelle Lezioni americane, la semplicità non è figlia dell’intuizione, ma di un esercizio prolungato di concentrazione: solo così arrivi a dipingere, con un gesto, il granchio perfetto.

Il mestiere di Cattelan beneficia anche del mestiere di Gerhard Richter, di Hans-Peter Feldmann e di tutti quegli artisti collezionisti che, nel corso del Novecento, hanno sviluppato la consapevolezza di agire sullo sfondo di una cultura visuale in continua, inarrestabile espansione. “Infomonks”, li chiamerebbe Kevin Bewersdorf. Il “monacato dell’informazione” è forse uno degli aspetti principali della “professione dell’arte” nel ventunesimo secolo: per produrre immagini (testi, suoni, oggetti, visioni) bisogna abitare il flusso, raccogliere, setacciare, filtrare. Ad esso si affiancano poi tanti mestieri particolari, ognuno dei quali segue la sua regola interna: c’è chi procede per pratiche minute e quotidiane, chi per progetti ambiziosi con tempi lunghi di gestazione; chi rielabora e affina continuamente un’unica immagine, chi esperimenta continuamente codici e soggetti diversi. Nessun mestiere ha più legittimità di un altro, nessuno ha maggiore potenziale di cambiamento: alla fine si può cambiare il nostro modo di vedere il mondo (e quindi, cambiare il mondo) anche dipingendo ogni giorno, in solitudine, con pochi riscontri, la stessa montagna.

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Domenico Quaranta
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Written by Domenico Quaranta

Domenico Quaranta is a contemporary art critic, curator and educator based in Italy. He’s the author of Beyond New Media Art (2013). http://domenicoquaranta.com

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