Silvia Federici: Caccia alle streghe, guerra alle donne
“La strega fu la comunista e la terrorista della sua epoca — un’epoca che necessitava di una spinta ‘civilizzatrice’ per produrre una nuova ‘soggettività’ funzionale alla disciplina del lavoro capitalista… La posta in gioco era distruggere non solo i corpi delle streghe, ma un intero universo di relazioni che erano alla base del potere sociale delle donne, nonché un vasto patrimonio di conoscenze trasmesse di madre in figlia attraverso le generazioni.” (p. 54)
La lettura di questo libricino (NERO, Roma 2020, traduce Witches, Whitch-Hunting and Women, PM Press 2018) non era tra le mie priorità di questo periodo. Non conoscevo il lavoro di Silvia Federici e avevo letture più urgenti da affrontare. Ma ha una copertina sexy e si porta facilmente a letto, così una sera l’ho preso in mano con l’intenzione di spulciare qualche pagina, e non sono più riuscito a smettere. Scoprire che la caccia alle streghe non è solo un episodio tardo medievale e premoderno, ma un fenomeno riesploso in epoca post coloniale e ancora attuale in Africa, India e in diversi paesi dell’America latina e del sudest asiatico ha sicuramente avuto un ruolo nel farmi continuare. Ma il punto di non ritorno è stata probabilmente una frase che ho trovato a pagina 22, dove l’autrice spiega: “al pari del commercio degli schiavi e dello sterminio delle popolazioni indigene del Nuovo Mondo, la caccia alle streghe si colloca al bivio di un insieme di processi sociali che hanno aperto la strada al moderno mondo capitalista.”
La tesi generale di Federici è che le cacce alle streghe esplodano in quei momenti di ristrutturazione sociale che accompagnano l’instaurazione di un modello di sfruttamento capitalista delle risorse; ciò accade in parte perché le donne (soprattutto quelle anziane e “improduttive”) vengono vissute come un peso, un fardello di cui liberarsi; in parte perché, in quanto memoria storica e agente di conservazione della comunità, operano per impedire al piano di privatizzazione di realizzarsi. La donna, secondo Federici, incarna un potenziale sovversivo che dipende dal suo legame con la natura, dall’attrazione sessuale e dal suo potere sociale: un potenziale che va represso, soggiogato, ingabbiato, reso innocuo e indirizzato a fini utilitaristici. In questo senso, le cacce alle streghe hanno sempre una doppia valenza: servono per liberare il campo da una componente sociale ritenuta inutile e pericolosa, ma nella loro “crudeltà pedagogica” servono soprattutto a terrorizzare le donne, costringendole nello spazio angusto che è stato loro riservato nella nuova società in formazione.
Per questa ragione, la caccia alle streghe si manifesta con dimensioni importanti durante le “enclosures”, quel processo di privatizzazione delle terre comuni che ha costituito l’origine dell’accumulazione capitalistica. Innanzitutto, il capitalismo “ha comportato una battaglia storica contro tutto ciò che poneva un limite al pieno sfruttamento del lavoratore, a partire dalla rete di rapporti che legava gli individui al mondo naturale, alle altre persone e ai loro stessi corpi. La chiave di tale processo è stata la distruzione della concezione magica del corpo che aveva prevalso nel Medioevo. Questa concezione attribuiva al corpo poteri che la classe capitalista non poteva sfruttare… A causa del loro particolare rapporto con il processo di riproduzione, alle donne, in molte società precapitalistiche, si è attribuita una speciale capacità di comprensione dei segreti della natura” che si manifestava nella pratica della magia. “Questo è uno dei motivi per cui le donne diventarono i bersagli principali nel tentativo capitalista di costruire una concezione del mondo più meccanicistica. La ‘razionalizzazione’ del mondo naturale… passava per la distruzione della ‘strega’.” (pp. 45–46, corsivo mio).
Parallelamente, “la nascente classe capitalista doveva degradare la sessualità e il piacere femminili in quanto forze incontrollabili… La repressione del desiderio femminile veniva ora posta al servizio di obiettivi utilitaristici, come la soddisfazione dei bisogni sessuali degli uomini e soprattutto la procreazione di un’abbondante forza lavoro. Una volta che il sui potenziale sovversivo fu esorcizzato attraverso la caccia alle streghe, la sessualità femminile poté essere recuperate nel contesto matrimoniale e indirizzata a fini procreativi… una forma di sessualità addomesticata e funzionale alla riproduzione e alla pacificazione della forza lavoro. ” (pp. 46–48, corsivo mio)
In altre parole, la caccia alle streghe all’epoca delle enclosures è stato un evento epocale, che ha privato la donna del suo potere sociale e l’ha confinata col terrore in una posizione da cui, nonostante le conquiste dell’ultimo secolo, non è ancora riuscita totalmente a liberarsi:
“mai nella storia le donne sono state sottoposte a un così massiccio assalto ai loro corpi, organizzato a livello internazionale, legalmente sancito e religiosamente benedetto… La caccia alle streghe ha prodotto un modello di donna asessuata, obbediente, sottomessa, rassegnata alla subordinazione al mondo maschile, costretta ad accettare come naturale l’essere relegata a una sfera di attività che nel capitalismo veniva economicamente svalutata.” (p. 52)
Che la caccia alle streghe si possa contestualizzare in un generale processo di svalutazione del ruolo della donna Federici lo dimostra nel capitoletto successivo, che analizza l’analoga — e pressoché coeva — demonizzazione del concetto di gossip. L’espressione, che nel Medioevo denotava l’aggregazione e l’amicizia intima femminile, è arrivata a significare “un discorso futile e inopportuno, che potenzialmente può seminare discordia” (p. 57). “Questa trasformazione è andata di pari passo con il rafforzamento dell’autorità patriarcale nella famiglia e con l’esclusione delle donne dall’artigianato e dalle arti che, accompagnandosi al processo delle enclosures, portò alla ‘femminilizzazione della povertà’.” (p. 62) Come nel caso della stregoneria, questo indebolimento del potere sociale della donna si è tradotto in crudeli punizioni fisiche (la mordacchia, o briglia della comare, o gossip bridle, e lo sgabello di immersione), in leggi, ma soprattutto in stereotipi culturali (la bisbetica, il gossip come pettegolezzo maligno). Questo non solo ha distrutto le forme di socialità femminile prevalenti nel Medioevo, ma ha permesso anche di svalutare l’unico ambito di attività rimasto alla donna una volta compiuto questo processo di riconduzione all’obbedienza, il lavoro domestico.
Nella seconda parte del volume, Federici si rivolge al presente, individuando, dietro le attuali forme di violenza contro le donne, un pattern analogo nonostante le abissali differenze di contesto sociale, politico e culturale:
“è sempre più evidente che le cause alla radice di questa rinnovata ondata di violenza vanno ricercate nelle nuove forme di accumulazione capitalista che comportano l’espropriazione delle terre di milioni di contadini, la distruzione delle relazioni comunitarie e un’intensificazione nello sfruttamento del corpo e del lavoro delle donne… la nuova violenza contro le donne è radicata nelle tendenze strutturali da sempre costitutive dello sviluppo capitalistico e del potere statale.” (pp. 72–73)
Federici sottrae subito al lettore occidentale il rassicurante retropensiero che le pratiche di violenza che elenca (sparare alla vagina, sventrare le donne gravide, l’aborto forzato di feti femminili, gli omicidi per la dote in India, i campi per streghe in Ghana) siano lo strascico di tradizioni, pratiche tribali, attitudini culturali e di un senso della vita che non ci appartengono (più). Al contrario, l’autrice punta il dito in una direzione molto precisa:
“stiamo assistendo a un’escalation di violenza contro le donne… perché la ‘globalizzazione’ è un processo di ricolonizzazione politica il cui scopo è fornire al Capitale un controllo incontestato sulle ricchezze naturali del mondo e sul lavoro umano, e questo obiettivo non può essere ottenuto senza attaccare le donne, che sono direttamente responsabili della riproduzione della loro comunità […] La brutalità degli attacchi perpetrati contro le donne… è l’altra faccia dei mandati delle istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e le Nazioni Unite […] Non importa chi siano gli esecutori materiali: solo gli Stati e le potenti agenzie internazionali possono dare il via libera a una tale devastazione garantendo che i colpevoli non vengano mai esposti alla giustizia.” (pp. 76–78)
Più avanti, l’accusa diventa ancora più chiara:
“le femministe dovrebbero mettere sotto accusa le Nazioni Unite, un’organizzazione che formalmente decanta i diritti delle donne ma che tra i suoi millennium goals include la liberalizzazione economica, e rimane in silenzio mentre in Africa e in altre parti del mondo donne anziane vengono demonizzate, espulse dalle proprie comunità, fatte a pezzi o bruciate vive.” (pp. 92–93)
Inquietante è anche ritrovare, dietro alle cacce alle streghe contemporanee, motivazioni e dinamiche analoghe a quelle dell’epoca delle enclosures: le presunte streghe sono quasi sempre donne anziane, espropriate o che resistono all’espropriazione delle loro terre, o donne attive (commercianti) che vengono demonizzate in quanto fardello sociale, competitor o ostacolo alla realizzazione economica delle giovani generazioni.
Marginali alla narrazione principale restano alcune notazioni lucidissime sulle società occidentali contemporanee, come quella sulla “crescente militarizzazione della vita quotidiana, con la sua conseguente celebrazione di modelli di maschilità aggressivi e misogini” (p. 85): una “mascolinità tossica” che, vediamo emergere non solo per le strade, ma anche negli immaginari narrativi dei mass media e dei videogame, e che spinge a interrogarsi su una questione di lunga data, che di solito chi difende la libertà espressiva tende a minimizzare. Se, “come Frantz Fanon ha sottolineato… la violenza è indivisibile: non puoi praticarla come occupazione quotidiana senza sviluppare tratti di carattere violento e quindi portarla a casa” (p. 86); se, come si legge tra le righe dei capitoli sulle enclosures e sul gossip, le narrazioni sono spesso state usate per inculcare modelli comportamentali e stereotipi culturali (la bisbetica) nelle menti dei lettori; come dobbiamo considerare l’esposizione a questi modelli nelle narrazioni contemporanee, e la possibilità di incarnarli nei media interattivi e immersivi?