Edwin A. Abbott: Flatland

Domenico Quaranta
7 min readJan 27, 2021

Pubblicato nel 1884 dall’educatore e teologo inglese Edwin A. Abbott sotto lo pseudonimo di A. Square, Flatland (letto in edizione Feltrinelli, a cura di Giancarlo Carlotti) è stato definito una “allegoria matematica”, una anticipazione profetica della teoria della relatività, una satira della società vittoriana, un viaggio spirituale che cerca di confermare la fede attraverso la scienza. Oggetto di innumerevoli letture, interpretazioni e traduzioni transmediali, letto senza troppi filtri è soprattutto la celebrazione della capacità della letteratura di calarci in una metafisica della realtà completamente diversa dalla nostra; di dare forma e legittimità a una visione del mondo inconcepibile, non traducibile in forma visiva, eppure accessibile a livello mentale. In questo senso, Flatland (amato non a caso dai grandi della fiction speculativa, da Asimov a Bradbury) è fantascienza nella sua forma più estrema, ricostruzione narrativa del punto di vista di un “altro” radicalmente diverso da noi.

Il fatto che questo mondo sia bidimensionale e che i suoi abitanti siano figure geometriche induce facilmente all’errore di considerarle delle proiezioni simboliche di qualcos’altro, come le pedine su una scacchiera sono l’astrazione di due eserciti schierati in battaglia. Questo è l’errore inevitabile in cui sono cadute tutte le versioni animate di Flatland: quello di visualizzarlo dal punto di vista di Spaziolandia, come se i suoi abitanti fossero figure geometriche su un foglio, o pedine su una scacchiera. Solo leggendo Flatland riusciamo ad adottare il punto di vista da cui è narrato: quello di un Quadrato che vive nel foglio, che vede la sua realtà dal piano del foglio, ma che nel corso della narrazione riesce, attraverso gli strumenti del sogno e della visione, a accedere a dimensioni alternative e, attraverso lo strumento del pensiero, a concepirne infinite altre (a quattro, cinque e n dimensioni).

Flatland è una visione in soggettiva di un mondo a due dimensioni, descritto da uno dei suoi abitanti. Questi abitanti sono figure geometriche: le donne sono linee rette, gli uomini sono triangoli, quadrati, pentagoni, esagoni, su su fino ai cerchi. Ma vivendo e muovendosi su un piano bidimensionale, solo il loro lato (o lati) esposto risulta visibile agli altri, il che fa si che si manifestino gli uni agli altri come tante linee rette di varia lunghezza, con l’eccezione delle donne che possono, occasionalmente, essere viste come punti. Ma dato che la forma di una figura corrisponde a un ruolo e a una funzione sociale (gli Isosceli sono soldati e operai, gli Equilateri corrispondono al ceto medio, Quadrati e Pentagoni sono professionisti e gentiluomini, i poligoni dall’Esagono in su sono l’aristocrazia, i Cerchi corrispondono alla classe sacerdotale), riconoscerne la forma nonostante i limiti del punto di vista diventa cruciale per vivere a Flatlandia. Il riconoscimento è tattile nelle classi inferiori, visuale nei ranghi superiori, quest’ultimo frutto di un lungo percorso di studi che punta a costruire gli strumenti della visione.

Se la società di Flatlandia è rigidamente strutturata in classi, definite appunto dalla forma assunta alla nascita, una certa permeabilità tra le classi è garantita, da un lato, da una legge di natura (secondo cui un figlio ha sempre un lato in più del genitore) e dall’altro dall’educazione e dalla “chirurgia”, che nei primi anni di vita può correggere l’eventuale irregolarità della forma, o costringere un giovane poligono a sviluppare un lato in più.

La società flatlandese ha messo a punto regole crudeli per controllare e punire la diversità, ma la loro crudeltà non è ingiusta, essendo conseguenza di un principio di autoconservazione: l’irregolarità di una figura è pericolosa per gli altri, perché il riconoscimento (sia tattile che visivo) è sempre approssimativo e non tiene conto di irregolarità che possono rivelarsi volontariamente o involontariamente assassine quando la figura si muove nello spazio bidimensionale di Flatlandia. Per questa ragione, le figure che nascono irregolari vengono, a seconda dei casi, curate, detenute o soppresse. Per la stessa ragione, le donne seppur rispettate per il loro ruolo nella riproduzione, sono sottoposte a rigidi protocolli di comportamento. Essendo linee rette, infatti, le donne sono pericolosissimi “aghi” vaganti, e sfidano i limiti della visione dei flatlandesi su uno spettro che va dall’ambiguità alla totale invisibilità. A seconda del loro orientamento nello spazio, possono manifestarsi o come linee di diversa lunghezza — facilmente confondibili con un’altra figura piana — o come un punto; e se questo punto è lievemente luminoso quando le vediamo di fronte, diventa praticamente invisibile quando ci camminano davanti, mostrandoci “il posteriore”. Per queste ragioni, le donne hanno una porta dedicata per entrare in casa, devono “annunciarsi” quando sono in uno spazio pubblico innalzando continuamente il loro “grido di pace”, devono “ondeggiare il posteriore” per renderlo visibile attraverso il movimento, e vengono soppresse quando affette da malattie come epilessia, ballo di San Vito o rinite cronica.

Questa struttura sociale è relativamente statica ed immutabile. Lo nota anche il nostro Quadrato, spiegando:

“… in Flatlandia la vita è piuttosto monotona. Naturalmente non sto dicendo che vi manchino battaglie, complotti, sommosse, fazioni e tutti gli altri fenomeni che si presume rendano interessante la Storia, e non voglio nemmeno negare che lo strano miscuglio di problemi esistenziali e matematici che incita di continuo a congetturare e verificare in un istante regali alla nostra esistenza una vivacità che voi spaziolandesi faticate a comprendere. Quando dico che da noi la vita è monotona parlo solo dal punto di vista estetico e artistico…” (p. 53)

Ma è questo punto di vista così secondario e marginale come potrebbe apparire da questa annotazione? L’unico momento storico in cui la vita in Flatlandia è diventata “esteticamente” interessante è stato quando “il colore rivestì di transitorio splendore le vite dei nostri antenati”, ossia quando un Pentagono di nome Cromatiste scoprì il colore e la pittura, e cominciò a dipingere di colori diversi non solo la propria abitazione, ma anche se stesso e i propri schiavi e parenti. L’innovazione ebbe inizialmente la meglio anche per il suo innegabile valore funzionale: associando uno specifico codice colore a ogni forma geometrica, il riconoscimento visuale diventava accessibile a tutti, senza bisogno di alcuna elaborata “Arte del Riconoscimento Visuale.” Ma l’effetto democratizzante di questa innovazione rivelò presto le sue ricadute sovversive, quando le classi sociali inferiori cominciarono a mettere in discussione la struttura classista della società, e quando rischiò di passare un progetto di legge che, attribuendo lo stesso codice colore a donne e cerchi, rischiò di rendere indistinguibili alla vista le donne dalla élite sacerdotale. La “sedizione cromatica” fu soffocata nel sangue e il colore bandito da Flatlandia.

Lineland, via Wikimedia Commons

L’altro fattore che potrebbe compromettere la monotonia della vita a Flatlandia ci riporta alla vicenda del nostro Quadrato. All’avvento di ogni millennio, la pace di Flatlandia viene sconvolta da “malintenzionati” che pretendono “di aver ricevuto rivelazioni da un altro Mondo” e di “poter produrre dimostrazioni tali da portare alla follia tanto se stessi quanto gli altri” (p. 111). Nel tempo il Gran Consiglio di Flatlandia si è premunito contro gli “Apostoli del Vangelo delle Tre Dimensioni”, che vengono individuati e confinati in manicomio o uccisi, al pari di chiunque li abbia ascoltati. È proprio questo il destino del nostro Quadrato, che vive appunto a cavallo tra due millenni. La rivelazione dell’esistenza di spazi multidimensionali avviene per gradi. Il penultimo giorno dell’anno 1999, Quadrato viene portato in sogno a Linealandia, un mondo unidimensionale dove ha un lungo dibattito con il sovrano dello stesso. Ovviamente cerca di convincerlo che il vero mondo è quello bidimensionale e che la sua è una realtà diminuita e incompleta, ma la sua “metafisica” viene compromessa, preparandolo — il primo giorno del 2000 — all’incontro con una sfera, che si cala in Flatlandia per rivelargli il Vangelo delle Tre Dimensioni. Il Quadrato resiste alle dimostrazioni, anche con violenza, ma la sua visione del mondo non può che crollare quando la Sfera lo “solleva” fuori da Flatlandia, costringendolo a testare con i propri sensi la realtà tridimensionale. Ma il “Vangelo” definitivo del Quadrato, e quindi del libro, non coincide con quello della Sfera, e richiede per definirsi un ulteriore passaggio: un sogno in cui, sotto la guida della Sfera, il Quadrato ha modo di vedere Puntolandia, un regno a zero dimensioni che coincide con il suo unico abitante:

“Osservi quella miserabile creatura. Quel Punto è un essere come noi, ma confinato nel Baratro adimensionale. Egli è il suo stesso Mondo, il suo stesso Universo, non riesce a concepire altro che non sia se stesso, non conosce Lunghezza, Larghezza, Altezza giacché non ne ha esperienza. Non ha cognizione nemmeno del numero Due, né concepisce la pluralità perché è in sé Uno e Tutto, mentre in Realtà è Nulla. Eppure faccia caso alla sua soddisfazione assoluta, e ne ricavi una lezione, cioè che essere soddisfatti di se stessi equivale ad essere miserabili e ignoranti, e che è meglio aspirare piuttosto che essere felici nella cecità e nell’impotenza.” (p. 123)

L’esperienza di queste tre forme di realtà consente al Quadrato di immaginarne infinite altre, e di capire che non esiste una visione della realtà “corretta” o “migliore”, ma anche di prendere coscienza del fatto che, come spiega Abbott nella “Prefazione del curatore alla seconda edizione riveduta”, “Punti, Linee, Quadrati, Cubi, Ipercubi, tutti siamo soggetti ai medesimi errori, tutti siamo parimenti Schiavi dei nostri rispettivi Pregiudizi dimensionali.” (pp. 15–16) Ovviamente questa visione estrema non può essere tollerata dalle autorità, che confinano Quadrato in manicomio.

Se lo status quo di Flatlandia si fonda sull’Arte del Riconoscimento Visuale e sul suo controllo elitario, non deve sorprendere se le uniche minacce alla stabilità di questo regime sociale appartengano ancora al dominio della visione. Se Flatland è un’allegoria, quello che dimostra è la centralità del dominio del visivo, il ruolo cruciale dell’estetica, delle immagini, dell’arte in ogni regime così come in ogni processo di cambiamento. Così come lo status quo si fonda sempre su un modo di vedere la realtà, solo cambiando radicalmente quel modo di vedere, scardinandolo e adottando punti di vista alternativi si può supporre di intervenire in maniera trasformativa sul reale. Se non c’è regime che possa esimersi dal controllare le logiche, i meccanismi e i dispositivi della visione, non c’è attivismo o rivoluzione che possa avere successo senza agire nella dimensione del visivo.

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Domenico Quaranta

Domenico Quaranta is a contemporary art critic, curator and educator based in Italy. He’s the author of Beyond New Media Art (2013). http://domenicoquaranta.com